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Parchi e riserve

Parco Regionale Urbano del Pineto

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Fa parte dell'itinerario storico di: La Via Aurelia

IL PARCO
Estensione: 243 ettari
Sede: c/o RomaNatura, Villa Mazzanti, Via Gomenizza 81- 00195 Roma
Telefono: 06 35405350
Sito web: www.romanatura.roma.it
Accessi: Via della Pineta Sacchetti 78 (Casa del Parco, Biblioteca Comunale), Via Proba Petronia 57, Via Luigi Morandi 9 (Giardini di Nassirya), Via Montiglio (a fianco della Chiesa Gesù Divin Maestro)

Tra le più note e frequentate aree naturali nel quadrante occidentale della città, il Parco Regionale Urbano del Pineto, istituito nel 1987 e oggi affidato alla gestione dell’Ente Regionale RomaNatura, offre scorci unici e singolari sulla . Riserva tra le più belle del territorio romano, è costituita da una vallata profondamente incisa, denominata Valle dell’Inferno, e da alcune modeste colline circostanti, che scendono dolcemente verso il Vaticano. Storicamente l’area era caratterizzata da fornaci che venivano utilizzate per produrre mattoni, calcare e calcestruzzi destinati alla famosa Fabbrica di San Pietro per innalzare la gigantesca basilica. Oggi rappresenta un vero e proprio polmone verde incluso in una zona fortemente urbanizzata, tra i quartieri di Primavalle, Boccea, Trionfale e Balduina.

IL TERRITORIO
Il Parco del Pineto è compreso tra le quote di 35 e 120 metri sul livello del mare, con il minimo lungo il margine meridionale (Via di Valle Aurelia) ed il massimo a nord in prossimità di Via Trionfale. Al suo interno si possono ritrovare le tracce geologiche di circa due milioni di anni, dal mare tropicale profondo, alle eruzioni del Vulcano Sabatino, attraverso le sabbie e la ghiaia, fino ad oggi. Chiare tracce della presenza del mare sono le argille marine, i complessi sabbiosi (particolarmente evidenti nella collina mediana) e le ghiaie sommitali. Testimonianza delle eruzioni vulcaniche sono i tufi sabatini che formano i pianori superiori del parco. Le aree più depresse sono invece il risultato dell’azione erosiva dei corsi d’acqua, particolarmente intensa durante gli episodi glaciali degli ultimi 20.000 anni. La presenza degli ampi affioramenti argillosi ha fatto sì che fin dall’antichità la vallata fosse utilizzata per l’estrazione dell’argilla e la produzione di laterizi. Tali attività si erano affermate a Roma sin dal I secolo d.C.; la loro diffusione è continuata fino al tardo impero in relazione alla crescita edilizia e, dopo una flessione durante il Medioevo, è ripresa a pieno ritmo durante il Rinascimento per la ricostruzione della Basilica di San Pietro. Testimonianza sull’uso dei laterizi e sulla storia delle fornaci è l’esistenza del «bollo laterizio», ovvero un marchio di forme differenti che veniva impresso sul mattone e che indicava il nome del proprietario della fornace o dell’operaio che vi lavorava. Agli inizi del ‘900, sorse qui il Borghetto dei Fornaciari di Valle Aurelia.
Il Parco del Pineto, che si estende per quasi 250 ettari, rappresenta oggi un importante residuo di Agro Romano e fa parte di un più vasto sistema ambientale, un tempo omogeneo e continuo, che partendo dalla valle dell’Insugherata arriva fino a via della Pisana includendo anche Villa Pamphili e le aree verdi ancora inedificate. La particolare collocazione all’interno di un settore densamente edificato rende il Parco un’area di cerniera tra i quartieri della estrema periferia occidentale interna al G.R.A. ed i quartieri semicentrali sorti sulle pendici di Monte Mario.

Andando indietro negli anni, va annotato che tutta la vallata del Pineto, denominata “Tenuta del Pigneto”, fu proprietà della famiglia Sacchetti, la quale alla fine del 1500 vi aveva fatto costruire una splendida villa. I lavori di progettazione erano stati affidati a Pietro da Cortona, impegnato anche nella costruzione della basilica di San Pietro. Di questa villa si favoleggiò come fosse uno splendore, paragonabile a quella dei Medici a fianco della scalinata di Trinità dei Monti e a quella del cardinale Ludovisi, dietro via Veneto. La villa venne però abbattuta quando la tenuta passò nel 1859 alla famiglia Torlonia. Oggi ne abbiamo testimonianza solo attraverso alcuni disegni e progetti che mostrano l’imponente facciata piena di decori e ornata di statue con una serie di scaloni a degradare in un grande giardino all’italiana. C’è mistero sul perché questa grandiosa costruzione sia stata distrutta. Si parla di una disastrosa frana che avrebbe investito quella parte della collina. Oltre alla villa, anche il limitrofo boschetto di pini, chiamato appunto “Pigneto”, che aveva dato fama e nome alla tenuta, andò distrutto (oggi ne rimangono solo alcuni esemplari). Sopravvivevano invece i Casali, nella parte settentrionale della tenuta, che il principe Torlonia provvide a restaurare, impiantandovi ai margini una nuova pineta, presente ancora oggi lungo Via della Pineta Sacchetti. Dei casali Torlonia, situati a breve distanza dalla strada, quello più grande, detto casale del Giannotto, è stato recentemente risistemato ed ospita una biblioteca comunale e il centro visite della riserva (la Casa del Parco), mentre il casale adiacente, risultante dall’ampliamento di edifici destinati a stalla all’inizio del Novecento, è in attesa di recupero.
Il patrimonio vegetale del Parco, che annovera più di 650 specie, rappresenta un decimo delle specie presenti su tutto il territorio nazionale, ed un quinto della flora del Lazio. Vale la pena ricordare che già nel 1954 il botanico e naturalista Giuliano Montelucci, che aveva studiato a fondo la flora e la vegetazione dell’area, propose di proteggere la zona per farne un “parco naturale”. Oggi la vegetazione è costituita principalmente da specie della macchia mediterranea e da uno strato arboreo che, oltre a lecci e roverelle, è dominato dalle sughere che si estendono principalmente sulle dorsali collinari. La sughereta del Pineto rappresenta uno dei lembi residui delle antiche foreste che un tempo occupavano la costa tirrenica. Ma grazie alla varietà di ambienti è possibile trovare anche specie arboree che prediligono climi più freschi come l’olmo, il nocciolo, il cerro e il farnetto e anche specie tipiche delle zone umide, come il pioppo bianco e il salice bianco. Nel sottobosco sono presenti arbusti quali erica arborea, cisto femmina, corbezzolo, ginestra, mirto, alaterno e lentisco, che offrono splendide fioriture primaverili. Tra le peculiarità botaniche, il parco ospita molte orchidee selvatiche, quali serapide lingua, serapide cuoriforme, orchide a farfalla e ofride verde-bruna. Da menzionare inoltre, per la loro bellezza e rarità, l’erba grassa muscosa, lo zafferano di Rolli e il coltellaccio maggiore, pianta acquatica piuttosto sporadica a Roma.

Anche le comunità faunistiche mostrano un’estrema varietà legata alla ricchezza di habitat vegetali. Tra le specie censite, interessante è la presenza di rapaci notturni nidificanti, come l’allocco, la civetta e l’assiolo, che essendo predatori all’apice delle piramidi alimentari evidenziano l’esistenza di prede come il moscardino e il ghiro che abitano le chiome degli alberi, nonché i numerosi piccoli roditori terricoli. Tritoni e rospi trovano invece spazio negli ambienti umidi di fondovalle, dove sono presenti rigagnoli di acqua corrente e piccoli stagni popolati anche da numerosi insetti le cui larve si sviluppano proprio nell’acqua. Tuttavia, la classe più cospicua di vertebrati è senza dubbio quella degli uccelli: dal gheppio allo scricciolo, dal picchio rosso maggiore al pettirosso, dall’upupa al merlo, dal gruccione alla cinciarella, sono state censite 71 specie di cui ben 39 nidificanti. Tra i mammiferi sono segnalati la volpe, il riccio, l’istrice, il cinghiale e diverse specie di pipistrelli. Frequentano l’area anche numerosi rettili, tra cui le lucertole muraiola e campestre, il biacco, il saettone e la luscengola.

LA VISITA
L’ingresso più noto per visitare il parco è quello di via della Pineta Sacchetti 78. Puntando ad est verso il fondovalle, cioè dalla parte opposta rispetto alla via Pineta Sacchetti, si prende a scendere a piedi avendo sulla destra stupendi prati aridi a graminacee. Camminando, appare lo scorcio più pittoresco dell’area protetta, vale a dire quello sul Cupolone che fa da sfondo ai prati e alle macchie di bosco. Questi ambienti aperti, dove a partire dalla primavera si ammira l’incessante e lieve volo delle rondini, sono anche il posto giusto dove cercare tra aprile e giugno le fioriture delle delicate orchidee: nel territorio dell’area protetta ne sono state censite una decina di specie. Continuando per il sentiero ci si inoltra per la parte più selvaggia e solitaria della riserva, dove in alcuni tratti non si vede una costruzione all’orizzonte e non si sentono i rumori del traffico automobilistico. Raggiunto dunque il fosso nel fondovalle, se ne può esplorare l’ambiente, caratterizzato da un boschetto di salici e da alcune pozze (anche resti di fontanili ottocenteschi) frequentate dalla rana verde e dai tritoni. Sulle sponde crescono la felce aquilina e l’equiseto. Si risale quindi l’altro versante, camminando in alcuni tratti su affioramenti di sabbie e argille, ritenuti dai geologi tra i più estesi e rilevanti del territorio urbano. Percorso un tratto pianeggiante si può guadagnare nuovamente il fondovalle chiudendo l’itinerario ad anello, oppure raggiungere i confini orientali della riserva presso l’accesso del pianoro di Via Proba Petronia, con vista sui vecchi complessi delle fornaci e sul limitrofo Borghetto dei Fornaciari.

DUE CURIOSITA’
La sughera o quercia da sughero
La sughera (Quercus suber) è uno degli alberi più tipici della vegetazione mediterranea, caratterizzato da una chioma sempreverde di tonalità grigio-bruna e da un tronco coperto da una corteccia rugosa, dalla consistenza leggermente spugnosa. Specie spontanea nei nostri climi, è stata anche diffusa artificialmente a scopi commerciali. Il suo tronco viene infatti periodicamente decorticato (demaschiatura) per ricavarne il sughero. Questa operazione viene fatta ogni 9-12 anni, quando lo strato di sughero raggiunge circa 3 cm di spessore. Il suo legno, molto duro, simile a quello del leccio, è di difficile lavorazione; viene utilizzato, quindi, soprattutto come legna da ardere. Nelle regioni a clima mediterraneo questa specie, anche se è molto resistente all’aridità del suolo, preferisce le zone più calde con una umidità atmosferica elevata. Vive circa 200-250 anni.

L’allocco, Strix aluco
L’allocco (Strix aluco) frequenta principalmente le zone boscate del Parco, sia per la ricerca dei posatoi, sia come luogo preferito di caccia. Tra i rapaci notturni italiani è senza dubbio il più eclettico.  Come nido utilizza le cavità degli alberi più grandi, dove, in genere, depone da tre a cinque uova. Preda principalmente ratti e altri piccoli roditori, ma anche uccelli passeriformi e anfibi, adattandosi alla disponibilità trofica dell’ambiente. Ben noto e facilmente riconoscibile è il canto lamentoso che lancia ripetutamente durante la notte per marcare il proprio territorio e, nel periodo riproduttivo, per attrarre la femmina. Attivo dal crepuscolo fino alle prime ore dell’alba, di giorno se ne sta appollaiato su un alto ramo, vicino alla biforcazione con il tronco, dove passa facilmente inosservato per la colorazione del suo piumaggio particolarmente mimetica.

 

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